Un dialogo con l'autore di "La specie storta", recentemente edito da Tlon.
Ogni tanto esce un libro di poesia che parla con una voce inaudita. È certamente il caso di La specie storta (Tlon, 2023), in cui Giorgiomaria Cornelio ci riporta alla lingua piena che già avevamo letto nella precedente raccolta La consegna delle braci. Qui le suggestioni di "fossili, favole, crociate", si intrecciano non solo a diverse forme di movimento (di ritorno, di sgretolamento, di ricostruzione, di viaggio...) ma si legano a testi antichi, vivificano corpi che si credevano estinti.
Il testo è accompagnato dalle illustrazioni ("partiture visive") di Giuditta Chiaraluce e introdotto da scritti di Elena Frontaloni e Matteo Trevisani.
Qui presentiamo un breve scambio con l'autore.
Filippo Rosso - Eccoci in "partenza", parola che fornisce il titolo a una delle prime cellule della raccolta. Qui scrivi: "Via... usciamo dal centro della sete. I Ministri hanno già toccato lo strampiombo impresso nelle cose. Quindi: partiamo. / E quanto lontano. Quanto lontano dovremo andare." Da dove si parte e che viaggio faremo?
Giorgiomaria Cornelio - La specie storta ha un duplice avvio: da un lato Valle Cascia, il piccolo paese della campagna marchigiana in cui sono nato, e dove una diceria popolare attribuiva ai fumi di una vecchia fornace di mattoni l'origine delle devianze dei suoi abitanti più giovani - come me. "Froci e puttane per via dei fumi": una leggenda di stortura che, attraverso una festa e un rito teatrale durato quattro anni, abbiamo tenacemente ribaltato in mito fondativo. Dall'altro lato, La specie storta è anche, nel suo capitolo centrale, una riscrittura della "Crociata dei fanciulli", la favolosa spedizione verso Gerusalemme avvenuta del 1212 e guidata da un pastorello, che arrivò coinvolgere più di trenta mila bambini. San Medardo di Soissons racconta come, secondo alcuni testimoni dell'epoca, prima di queste strane partenze, «di dieci in dieci anni, pesci, rane, farfalle, uccelli erano partiti allo stesso modo, ognuno secondo la propria specie».
A mia volta, ho voluto immaginare la "specie storta" come il punto d'infrangimento di tutte le specie: una moltitudine senza nome certo, in viaggio su un'arca di micelio, che per mare attraversa un atlante di isole dove le scottature dell'attualità (catastrofi ambientali, estinzioni, paralisi immaginative, leggi dei Padreterni) diventano meccanismi iniziatori, luoghi di passaggio verso altri possibili, non più miseramente incastrati nelle formule del linguaggio quotidiano. La "specie storta", nel suo viaggio tutto fatto di sbandamenti, cerca "L'isola del Fosco Granaio", dove abitano gli "Spiriti vecchi"; sono creature ancora vestite con i cenci regali della fiaba, e il cui unico comandamento recita così: «prega ogni giorno che basti una lucciola per dare fuoco al mondo». Un comandamento che appartiene anche alla poesia: saper coltivare parole e immagini-lucciole, cominciamenti, accensioni immaginative, ma anche "fossili di rivolta", ovvero modi di pungolare il passato per trovarvi ciò che non è mai davvero trascorso: il secondo etimo, l'altra nascita, più necessaria della prima.
FR - Fino a che punto queste attivazioni o contorsioni riguardano esclusivamente il linguaggio? E come invece partecipano alle trasformazioni del cosiddetto reale?
GC - Quando è ancora capace di attivazioni o contorsioni, il linguaggio partecipa alla trasformazione del reale. «Poesia è legare – slegare», scriveva Emilio Villa. In questo senso, la poesia produce scardinamenti formidabili: fa schiantare le associazioni più immediate, sciacqua i detti usurati dall'uso di tutti i giorni, e crea legami impensati tra cose normalmente tenute a grande distanza. È un intoppo alle grammatiche "diritte", e insieme uno strumento di fioritura percettiva. Permette di vedere diversamente, e quindi di intervenire sul mondo con prospettive più "depravate". La poesia che m'interessa è quella fa perdere il "nome proprio", e ci avventura in altri mondi, dove occorre, come nel viaggio della fiaba - per l'appunto -, andare incontro al proprio ignoto.
Si potrebbe poi, nel caso della poesia, dire lo stesso del simbolo per come formulato da Pavel Florenskij: «una realtà superiore alla stessa realtà, giacché porta in sé l’energia di altre realtà». La poesia «unisce i mondi», è portatrice di rinascite: di volta in volta, rimette in gestazione il cosmo intero.
FR - Ecco, lo sciacquare: il viaggio per il mare, lo sciabordìo, e prima ancora la suggestione del diluvio. C'è un uso abbondante dell'elemento acquatico, nel libro. Da dove viene, cosa implica?
GC - La prima parte del libro si chiama proprio Favole dal secondo diluvio, e narra di un nubifragio, di un secondo diluvio che avrebbe dovuto lavare via tutto, e che invece, contro ogni previsione, dà avvio a un capovolgimento; riscrive le geografie, gli ordini di basso e alto, le facili separazioni tra creature, le distinzioni secolari tra "organi utili e quelli inutili". Il secondo diluvio prova a dire che «l'estinzione non è pensabile sino in fondo», e che dobbiamo tenerlo a mente, se non vogliamo cedere a ogni fine già annunciata.
Un'altra immagine legata a quanto dici è quella "dell'acqua di San Giovanni", l'acqua con l'iperico e altre erbe che si prepara d'estate durante la notte di San Giovanni, per cercare, al mattino, la protezione della rugiada. Quell'acqua, come la poesia, è il residuo di una tradizione, ma anche l'immagine di un qualcosa in cui immergersi per uscirne rinnovati, oltre ogni storia della colpa: «nel secchio di rame ci laviamo tutti. Nel guasto secchio. Nel secchio con la malva. Nel secchio con l'iperico. È la notte di san Giovanni questa notte lunga quanto noi».
Mi piace anche pensare che questo elemento acquatico conviva e risponda alle formule del fuoco del mio libro precedente, La consegna delle braci.
FR - Nei "Fossili di rivolta" (che oltre a essere un capitolo del testo, è il titolo di un articolo pubblicato sulla nostra rivista) specificavi che la chiave del ragionamento non è più "salvare dall'abbandono" (del corso dei viventi, delle cose), ma "salvare questo stesso abbandono". Del resto, nello sfacelo e nello sgretolamento torna spesso il tuo scrivere. C'è però un punto ulteriore in cui, diversamente, accenni a una terra buona per fare mattoni, materia per costruire. Parlano gli spiriti vecchi: a cosa alludono?
GC - Salvare l’abbandono non significa essere innamorati dello sfacelo. Tutt’altro: è un modo per dire che l’appartenenza non può mai essere esclusiva, totale. Che rimarrà sempre qualcosa che sfugge a questa presa, e che proprio in questo sfuggire v’è l’opportunità di un altro senso, inaspettato. Solo un imprevisto può salvarci...
È lo stesso principio dell’amore, che non ha dimora nella fissità, nel confermarsi delle cose, ma semmai nel lento schianto di realtà anche diversissime: «amore, / oggi l’incontro / ci spatria le ossa», ci ricostruisce da capo.
Gli Spiriti Vecchi insegnano questo: l’incrinatura, come mi trovo spesso a ripetere, è un talento. Non bisogna mai credere fino in fondo al dominio del dolore.
FR - C'è un passaggio nel testo che mi ha fatto tornare in mente alcune considerazioni illuminanti di Hans Jonas a proposito della "voce del futuro": "Pretese può avere soltanto ciò che avanza pretese - ciò che è. Ogni vita solleva la pretesa alla vita [...]. Il non esistente però non solleva alcuna pretesa e perciò non può subire una violazione dei suoi diritti. Può avere dei diritti se esiste, ma non li ha soltanto in vista della possibilità di esistere." (in Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, 1979).
Scrivi: "E adesso che l'uomo malanna, / che a grandi ondate s'inceppa / il meccanismo / scopritore di terre, resta da / inventare un continente / per quelli che furono estinti".
Ecco, mi sembra che il punto qui e altrove sia questo: creare un mondo di possibilità inedite per chi non appartiene direttamente al presente.
GC - Si tratta proprio di restituire visibilità a ciò che non soggiace alla categoria di immediata presenza; di lottare perché qualcosa possa essere preso in considerazione senza bisogna d'assoluto inveramento (di certificato d'esistenza); di lottare per quel resto di doglia che s'ostina a scavalcare il concepimento. E poi, ancora, di de-estinguere saperi, corpi e visioni che si ritengono perduti per sempre, e che invece sono soltanto imperduti, ovvero momentaneamente addormentati nel loro movimento di sparizione, ma sempre sul punto di riaffiorare, di comparire altrimenti. Nulla muore definitivamente.
Questo vale anche per i traviamenti, per le ferite e i resti dell'oppressione: quelle che nel libro chiamo "le fondamenta di Sodoma", e che crediamo facilmente liquidate in quest'epoca di limpido "progresso". Ma senza affrontarle - cancellandole senza passare attraverso le "croste del dolore" («le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte», come scrive Celan) - rischiamo di venire nuovamente travolti. Non è un caso che certe conquiste dell'agire democratico che si ritenevano intoccabili sono oggi nuovamente messe in discussione...
Proviamo a dialogare con i fantasmi; a trovare, tra le parole degli aguzzini, quella inattesa: che li rovescia. Facciamo i conti con i mondi terribili e splendenti da cui siamo abitati. Si tratta di un tipo fondamentale di ecologia. Timothy Morton lo spiega in queste termini: «non potremo mai liberarci del nostro corpo, degli antenati che ci portiamo nelle nostre ossa, delle vesciche natatorie che giacciono nei nostri polmoni, dei batteri che abitano le nostre viscere, dei fantasmi. Non è proprio di fronte a questo che ci mette quotidianamente la consapevolezza ecologica?».
Proprio ora che tutto sembra essere dannato alla scomparsa, abbiamo il compito di edificare in questa fuga - attraverso l'urgenza di questa fuga. Ti scrivo queste righe mentre rivedo per l'ennesima volta il finale di C'era una volta il West di Sergio Leone. Ecco: per sempre è solo ciò che fugge; come il cinema.
FR - E del resto la stessa immagine filmica si salva dalla sua morte – semmai – solo perché ogni volta riavvolta e riprodotta allo stesso modo. Ma invece vorrei seguirti su un’altra strada, nella piega che prende il libro dalla sezione che intitoli, appunto, “Rinnovella”. Qui apri al tempo futuro, al positivo. Al limite: c’è una moltiplicazione di futuri positivi: “Di tutti i nomi, solo / uno non sarà vinto: / quello che ancora / manca”, “Allora / le doglie scavalcheranno il concepimento. / Allora resteremo abbandonati. / E per questo: / Salvi.”
Che parentele ha con il passato, questo futuro, che grado di libertà, di imprevedibilità?
GC - La parola chiave qui è proprio parentela; una volta aperto il varco attraverso (e oltre) paralisi, fobie, "malinconie inessenziali", scopriamo altro: che siamo mischiati con tempi innumerevoli; che siamo fatti di ritorni e di mormorii, di pietra lavica e d'acciaio; che nessuna rivoluzione o catastrofe ha mai spezzato radicalmente l'accesso a ciò che ci precede; che il rinnovellamento non cancella niente, ma conserva mentre sperpera, solleva mentre depone; che bisogna dialogare anche il malaugurio; che il futuro, qualsiasi futuro, resta, nonostante tutto, incatturabile; e che mentre si piegano le spine dorsali, mentre l'Uomo come misura si raggrinzisce fino a diventare buffonesca, tutto attorno le cose sollecitano nuovi moti, altri cominciamenti. Lo voglio ribadire con le parole di quel libro luminoso e sconfinato che è Corpo celeste della Ortese: «So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell'uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata».
FR - Vorrei spendere una parola su un aspetto del libro che mi colpisce molto: l'abbondanza di esergi, anche 2-3 per ogni sezione, quasi a rimarcare l'intertestualità e i rimandi alle voci che costruiscono la rete della parola scritta. Ci puoi dire qualcosa a riguardo?
GC - Questa abbondanza, questo attardarsi sulla soglia, io lo intendo come un modo di segnalare fin da subito il dialogo ininterrotto che percorre il mio libro, e in fondo ogni libro; è un montaggio di alleanze, di voci che non si limitano a introdurre o pedinare il contenuto delle poesie; anzi: lo interrogano, lo biforcano, aprendo altri sentieri. I libri permettono anche questo: che s'incontrino, nella stessa pagina, Bernardino da Siena e Diamanda Galas; e che questo stare insieme non assomigli a uno schiacciamento o una riconciliazione, ma un'adunanza di tensioni, che però finalmente si salutano.
Gerard Genette, in un saggio assai curioso come Soglie. I dintorni del testo, diceva che il paratesto, se non è ancora il testo, è comunque già testo, e come tale va considerato. Per me il libro, come avventura della carta, inizia già con gli eserghi - ancora prima degli eserghi. In questo senso, la copertina di Giuditta Chiaraluce si pone come un monito: Lirriguardosoocchiovispo, la creatura che vigila sull'apertura del libro, fissa chi legge e lo chiama a raccolta; ha la stessa voce della specie storta, e dice: «Ascolta. Tu sa che la carestia più non s’incastra al canto. Vieni allora a rivoltare questa secca delle ossa».
FR - Siamo arrivati alla conclusione di questo breve scambio. Come proseguirà il tuo lavoro, in quali direzioni?
GC - Con il gruppo dei "Fumi della fornace" stiamo già lavorando a una nuova trilogia poetico-teatrale, di cui per ora conserviamo la sorte di un titolo: L'ufficio delle tenebre. Del primo movimento, Quest'ora ripida, dirò soltanto che prende avvio dai versi di Rilke, dal loro tremore, con il quale ora possiamo salutarci: «Sono l’attimo tra due suoni / che male s’accordano / perché il suono morte vuole emergere. / Ma nella pausa buia / si riconciliano / entrambi tremando. E bello resta il canto.»
(1997) è poeta, regista, curatore del progetto ”edizioni volatili”, e redattore di “nazione indiana”. Ha co-diretto la “trilogia dei viandanti” (2016-2020). Suoi interventi sono apparsi su “Le parole e le cose”, “Doppiozero”, “Antinomie”, “Il tascabile” e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore) e "La specie storta" (Tlon edizioni).