My loneliness
USA | Arti
Dal caso del "conservatorship" agli hashtag di liberazione, il recente documentario prodotto dal New York Times, "Framing Britney Spears", racconta il disfacimento di un mito e di un'intera società.
Prolific è la più grande piattaforma di crowdsourcing globale, pensata per fornire a ricercatori universitari delle “popolazioni” di soggetti partecipanti a ricerche ed esperimenti di varie scienze sociali. Il racconto di un partecipante.
È da poco uscito in traduzione italiana un corposo volume dell’antropologo, biologo e psicologo Joseph Henrich, WEIRD. In 700 pagine spiega come ciò che ai nostri occhi di occidentali sembrano ovvietà – i nostri valori, abitudini, l’organizzazione di famiglie e Stato – siano in realtà un qualcosa di estremamente peculiare, weird per l’appunto, termine che sta per western, educated, industrialized, rich, democratic.
Una delle tesi ispiratrici di Henrich e colleghi, risalente ormai al 2010, ha allo stesso tempo dell’ovvio e dello scandaloso: ciò che nell’ultimo secolo e mezzo si è “scoperto” della mente umana è assolutamente parziale. La causa principale? Il fatto che gli psicologi, nel condurre i propri esperimenti, nella stragrande maggioranza dei casi si sono rivolti sempre alle stesso tipo di persone, ovvero soggetti occidentali, educati, proveniente da ambienti industrializzati, ricchi e appartenenti a regimi democratici, ovvero WEIRD. In altre parole, ciò che si è pensato essere fondamentalmente “universale” rispetto al funzionamento della mente e della psiche non è che una indebita generalizzazione di risultati in realtà relativi a popolazioni tutto sommato molto ristrette.
Il problema di diversificare le fonti è reale: una verità spesso sottaciuta è che tanta ricerca si svolge su popolazioni di studenti, a loro volta per la maggior parte in atenei statunitensi, per ovvi motivi di ottimizzazione di tempo e denaro. Ottenere fondi per la ricerca è anch’esso un problema annoso e che non conosce confini geografici.
La digitalizzazione del mondo ha però aperto altre vie, che stanno contribuendo a mettere una pezza a questo problema. Dal 2014 si è progressivamente diffusa a livello globale Prolific, una piattaforma di crowdsourcing specificamente dedicata alla ricerca accademica, al contrario ad esempio del più famoso predecessore Mechanical Turk, di proprietà di Amazon, online dal 2005. L’idea di base non è diversa dalle procedure per il reperimento di soggetti in presenza: si progetta un esperimento da far svolgere a un campione di soggetti, che vengono coinvolti in cambio di una modesta compensazione monetaria in cambio del loro tempo. Il pregio maggiore è la rapidità con cui i ricercatori possono reclutare centinaia, se non migliaia, di soggetti in pochi secondi. Un altro problema risolto da questa modalità di crowdsourcing è la profilazione: gli iscritti devono preliminarmente rispondere a più di 200 domande su di sé su molteplici aspetti della propria vita. Dai dati anagrafici e familiari di base, al tipo di impiego attuale (incluso il reddito annuo), passando dagli hobby o dal rapporto con la tecnologia, arrivando fino a dettagli sensibili come credenze religiose e condizioni di salute personale. Una cosa a metà tra un sito di dating e una pratica Inps, insomma.
Questo minuzioso, seppur invadente, livello di profilazione consente di certo una maggiore precisione nell’interpretazione dei dati raccolti dalle ricerche, a cui si partecipa anonimamente. Unendo però anonimità e retribuzione monetaria alla vertigine del questionario a scelta multipla (una delle modalità più frequenti) e alla spersonalizzazione della modalità di reclutamento, il rischio di ottenere dati di bassa qualità è reale. La maggior parte degli studi cerca infatti di utilizzare tutti i trucchi possibili per agganciare il partecipante al task da compiere. Dalle classiche domande di controllo dell’attenzione (“Seleziona In totale disaccordo a questa domanda”, oppure il mio preferito tra i vero/falso: “Ogni giorno per andare al lavoro attraverso l’Atlantico a nuoto”) agli appelli all’onestà quando è tutto finito (“Possiamo veramente utilizzare le tue risposte? Sei stato attento e preciso durante l’esperimento?”), la paura di ritrovarsi il frutto di una persona poco coscienziosa dei destini della Scienza che preme tasti a caso per portare a casa una sterlina per cinque minuti al computer è tangibile, per chi partecipa. E almeno in diversi casi, è assolutamente giustificata. La war for attention ha toccato anche la ricerca accademica online.
Sarebbero molte le bizzarrie relative agli studi online da raccontare, ma c'è un aspetto che merita di essere esplorato: come ci si sente a fare la “cavia” di mestiere? Partiamo col dire che è pressoché impossibile arrivare a campare di studi su Profilic. Le paghe orarie, che pure sono regolate da minimi dinamici, variano molto e se alcuni studi sono relativamente generosi nel retribuire 12 £ per un’intera ora di impegno, la maggioranza di fatto porta nelle tasche dei partecipanti delle frazioni di sterlina o comunque somme inferiori all’equivalente di 2 €. E, almeno per la mia esperienza, è impossibile partecipare a più di qualche studio al giorno. Tanti giorni non si viene convocati affatto. C’è sicuramente una quota di casualità in questo: l’app si aggiorna automaticamente ogni paio di minuti o si può controllare manualmente ogni dieci secondi (questa è una novità, prima, volendo, si poteva cliccare all’impazzata il tasto di refresh nella speranza di farlo al momento giusto). Non scordiamo che, ammettendo che la maggior parte delle ricerche provenga dagli Stati Uniti, è assai probabile che vorranno testare soggetti a loro volta registrati sul suolo nordamericano. Forse in USA è davvero possibile, come chiede la piattaforma nella bio, che “Prolific sia la tua prima fonte di reddito”. Ciononostante, in esattamente due anni, ho completato con successo 320 studi e guadagnato poco più di 550 sterline. Il calcolo del tempo impiegato non è purtroppo disponibile. Penso che il calcolo della paga oraria risulterebbe impietoso.
Ma spostando il discorso al piano qualitativo aver accumulato un bel po’ di studi ha avuto comunque un effetto su di me, come “cavia”, seppur part-time. Un po’ di attrazione per la modalità devo ammettere che c’era sin dall’inizio, anche se non avrei potuto prevedere come sarebbe andata a finire. Nelle riviste o nei fumetti che leggevo da bambino la rubrica che preferivo erano invariabilmente i test, in quanto rapida scorciatoia nella conoscenza di me. L’essere stato soggetto a ormai migliaia di singoli quesiti – abitudini che altrimenti non mi sarei mai posto! – su centinaia di dettagli del mio carattere mi ha certamente dato più consapevolezza di me. Così come a nove anni era importante per me farmi dire da Lupo Alberto cose come “che tipo di amico sono”, in questi due anni ho avuto – in cambio di qualche spicciolo – molte occasioni di riflettere su diversi nodi della mia persona, a partire dalle domande ripetute con rara monotonia da certi studi.
Il più classico e (forse) ormai indolore, è il check dell’umore: sei stato depresso o ansioso o felice o entusiasta o iperattivo nelle ultime due settimane o nell’ultimo mese? E lo sei stato sul lavoro o in famiglia o con il/la partner? Sei soddisfatto di come ti stanno andando le cose?
Fin qua, ordinaria amministrazione. Ma bastano pochi click per entrare in un territorio ben più oscuro e accidentato.
Essere intorno agli altri ti fa sentire eccitato o è una fatica? Preferisci essere l’anima della festa o uscire di casa il meno possibile? La cosa più interessante che riesci a concepire nella vita è parlare faccia a faccia con un’altra persona? Il dolore cronico che senti in questa tale parte del corpo che effetto ha sulle tue speranze per il futuro? Questa fotografie che rappresentano situazioni di povertà associate a determinate parole astratte come ti fanno sentire nei confronti di queste persone?
E potrei continuare. Un ambito che invece non mi aspettavo fosse indagato così tanto è quello del potenziale posizionamento sullo spettro autistico. Ricorre una serie di domande rispetto a una vasta gamma di tratti comportamentali da riconoscere in sé stessi: per la mia sorpresa era spesso abbinata a task di tipo più strettamente cognitivo, come associazioni di parole a stimoli audio/visivi. L’obiettivo era evidentemente cercare di correlare l’autopercezione di tratti compatibili con lo spettro autistico con performance in compiti che a un utente forse meno avvezzo di me con lo studio delle mente in generale scommetto sembrerebbe poco più di classici esperimenti da laboratorio coi topolini. Che le domande avessero a che fare con l’autismo fu, almeno all’inizio, una mia presupposizione a cui arrivai per una conoscenza vaga dei tratti considerati prototipici: attenzione ossessiva a certi dettagli, alta sensibilità sensoriale, difficoltà nell’interazione sociale, e altro ancora. Non che abbia ritenuto di poter essere davvero sullo spettro, ma aver risposto positivamente ad alcune di queste domande, mi ha fatto per lo meno pensarci su.
Un altro questionario che mi rese angoscioso fu rispondere ad un test che passava in rassegna una casistica dettagliatissima di violenze verbali, psicologiche, fisiche o sessuali che avrei potuto rivolgere o subire al/la partner. Il livello di specificità e precisione del lungo questionario mi lasciò il voltastomaco, pur avendo cliccato “Assolutamente no” o “Mai” a tutte le caselle. È chiaro che al mio sconvolgimento corrispondeva, da qualche parte, la tragedia di qualcuno.
Lo shock a volte è anche culturale. Un’unica volta mi sono collegato in una stanza Zoom con una decina di altri partecipanti da tutto il mondo: eravamo chiamati a esprimere e argomentare a voce, in inglese, in gruppo i nostri giudizi spontanei di tipo etico. Si trattava di una variante del trolley problem, ma con le automobili a guida automatica. A seconda dell’età e della nazionalità le intuizioni differivano. Fu inaspettato trovare una certa consonanza tra i comportamenti con certi stereotipi: un ragazzo dell’Est Europa difendeva la scelta di lasciar morire un vecchio perché ormai la sua vita se l’era fatta, mentre altri mediterranei inorridivano; oppure persone dall’Asia mostravano di pensare più a come un certo evento colpisse la comunità, mentre gli americani brandivano la bandiera dell’individualismo.
Una costante tutta da approfondire sarebbe quella della richiesta del censo da parte di praticamente qualsiasi studio. Età, genere, provenienza nazionale, ma anche reddito medio annuo. Non manca anche il grande classico del posizionamento sociale percepito. Un po’ come quando al pronto soccorso ti chiedono di valutare il dolore da 1 a 10: non so mai cosa dire. Certo, c’è gente molto più ricca di me, ma anche tristemente più povera o soltanto un po’ più modesta. Io sono un precario nel mondo accademico e scolastico, in ambito umanistico: questo fa di me un 6 sulla scala della società italiana? Chiedendo ad alcuni, un 4; sentendo altri si può ribaltare la situazione fino a un bel 8. Un dilemma docimologico degno del meme oggi in voga: He’s a ten, but…
Una volta ho dovuto confidarmi ad un ricercatore russo in merito alle prospettive future del rapporto con la mia fidanzata: tutti gli scenari possibili erano elencati in modo maniacale e implacabile, dai quesiti a scelta multipla (convivenza? figli? reddito? affitto? eredità?) che ho dovuto completare. Ho dovuto fare i conti con le insicurezze, illusioni, e prese di consapevolezza da fare invidia a una seduta di terapia di coppia.
Tutti questi dilemmi, dirà qualcuno, sono reazioni esagerate: hai fatto davvero così poca autoanalisi nella vita per farti turbare da qualche questionario compilato in fretta e furia, per perdere meno tempo possibile e scappare con una manciata di monete?
A mia difesa posso dire che forse neppure i compagni più stretti di Socrate venivano martellati con decine di domande al giorno, sul loro io più intimo, sulla difficoltà dei rapporti sociali, sui limiti al comportamento umano, sulle credenze etico-politiche. E tutto questo spesso senza avere la possibilità di argomentare, ma essendo costretti a selezionare un indicatore numerico da 1 a 5 o far scorrere uno slider da 0 a 100 nel minor tempo possibile. Senza contare anche la frequente distanza linguistica di raccontare e capire sé stessi, ma in inglese (o, rare volte, persino nel mio sgangherato francese).
Dice Edoardo Camurri che una delle sfide della nostra epoca è quella di farsi Dada contro i Big Data, cioè di rendersi illeggibili all’algoritmo e refrattari alla profilazione. Non so dire, in tutta onestà, se la mia esperienza di riempitore di moduli seriale mi ha portato a vendermi per un piatto di lenticchie agli scienziati sociali o marketers di mezzo mondo. Certo, qualche volta ho semplicemente mentito, qualche volta ho risposto un po’ velocemente soprattutto ai questionari prolissi o costruiti male, ma la verità è che questa retroazione sul mio sentire e conseguentemente sul mio raccontarmi c’è stata. Certo, l’interlocutore è completamente virtuale, inanimato e non mi dirà mai cosa ne pensa. Eppure in queste situazioni sento la stessa premura di quando riempivo i test di Topolino e desideravo che uscisse il profilo “B”: nel raccontarsi, anche parlando al muro, è inevitabile anche raccontarsela un po’. Se le domande sono giuste, come quelle di un terapeuta o di un Socrate, o anche se sono soltanto reiterate e ossessivamente dettagliate come si riempisse un modulo per l’Agenzia delle entrate, allora l’effetto finale è quello di ascoltarsi durante la narrazione di sé. E ascoltandosi parlare i nodi vengono al pettine.